DELIBAZIONE

(art. 8 n. 2 Accordo SANTA SEDE E REPUBBLICA ITALIANA dd. 18.02.1984)

La delibazione è il procedimento attraverso il quale una sentenza emessa da un tribunale ecclesiastico viene riconosciuta nell’ordinamento italiano. Il procedimento viene attivato con ricorso di entrambi i coniugi o con un atto di citazione promosso da un coniuge nei confronti dell’altro presso la Corte di Appello nel cui territorio il matrimonio è stato trascritto.

Per poter presentare ricorso o atto di citazione per il riconoscimento della sentenza ecclesiastica che dichiara la nullità del matrimonio è necessario aver contratto un matrimonio concordatario (matrimonio celebrato in Chiesa secondo le norme del diritto canonico e trascritto nei registri degli atti di matrimonio), aver ottenuto la dichiarazione di nullità da parte di un tribunale ecclesiastico ed il decreto di esecutività della Segnatura Apostolica.

I motivi sulla base dei quali il matrimonio è stato dichiarato nullo da un Tribunale ecclesiastico non sono di per sé ostacolo alla delibazione: alcuni corrispondono ai motivi per cui un matrimonio può essere dichiarato nullo o annullabile anche dallo Stato italiano (es. incapacità naturale, errore, timore) altri, le esclusioni o simulazioni, vedono il solo limite della riserva mentale.

La delibazione può essere chiesta sia da chi risulta ancora sposato per lo Stato italiano (in quanto non ha provveduto ad attivare la procedura di separazione personale dei coniugi o seppur separato non ha ancora ottenuto il divorzio) sia da chi risulta già divorziato. Tuttavia, una volta ottenuto il divorzio, le statuizioni personali e patrimoniali ivi presenti non vengono meno a seguito della delibazione della sentenza ecclesiastica. Come spiega una sentenza della Cassazione: “la sentenza di divorzio, pur non impedendo la delibazione della sentenza di nullità del matrimonio pronunciata dai Tribunali ecclesiastici, impedisce che la delibazione travolga le disposizioni economiche adottate in sede di divorzio”. Relativamente ai capi della sentenza di divorzio che contengono statuizioni di ordine economico “si applica la regola generale secondo la quale, una volta accertata in un giudizio fra le parti la spettanza di un determinato diritto” in particolare l’assegno di divorzio “con sentenza passata in giudicato, tale spettanza non può essere rimessa in discussione” (Cass. Civ., Sez. I, Sentenza del 23.03.2001 n. 4202).

Diverso è il destino delle statuizioni di ordine economico tra coniugi contenute nella sentenza o nell’omologa di separazione: posto che con la delibazione della sentenza ecclesiastica il matrimonio è considerato nullo anche per lo Stato italiano sin dalla sua origine, cadono le statuizioni economiche ad esso relative. Rimangono invece le statuizioni relative ai figli in quanto la delibazione lascia impregiudicati gli eventuali rapporti di filiazione e tutti gli obblighi giuridici ad essi collegati.

La Corte di Appello che dichiara esecutiva nell’ordinamento italiano la sentenza ecclesiastica può statuire provvedimenti provvisori di natura economica a favore del coniuge in buona fede (cioè di quello che ignorava, al momento della celebrazione, la causa di nullità) il cui matrimonio sia stato dichiarato nullo. Tali provvedimenti di natura economica vengono adottati in virtù dei principi sanciti negli articoli  129 e 129-bis cod. civ. che riguardano il matrimonio c.d. putativo (matrimonio nullo o invalido contratto in buona fede, cioè nella convinzione di contrarre un matrimonio valido, da uno o da entrambi i coniugi).

L’art. 129 prevede che quando le condizioni del matrimonio putativo si verificano rispetto ad ambedue i coniugi, il giudice può disporre a carico di uno di essi e per un periodo non superiore a tre anni l’obbligo di corrispondere somme periodiche di denaro, in proporzione alle sue sostanze, a favore dell’altro, ove questi non abbia adeguati redditi propri e non sia passato a nuove nozze.
Per i provvedimenti che il giudice adotta riguardo ai figli, si applica l’articolo 155.

L’art. 129 bis c.c. stabilisce che Il coniuge al quale sia imputabile la nullità del matrimonio è tenuto a corrispondere all’altro coniuge in buona fede, qualora il matrimonio sia annullato, una congrua indennità, anche in mancanza di prova del danno sofferto. L’indennità deve comunque comprendere una somma corrispondente al mantenimento per tre anni. È tenuto altresì a prestare gli alimenti al coniuge in buona fede, sempre che non vi siano altri obbligati.
Il terzo al quale sia imputabile la nullità del matrimonio è tenuto a corrispondere al coniuge in buona fede, se il matrimonio è annullato, l’indennità prevista nel comma precedente.
In ogni caso il terzo che abbia concorso con uno dei coniugi nel determinare la nullità del matrimonio è solidalmente responsabile con lo stesso per il pagamento dell’indennità.

La corte di Appello adita per dichiarare l’efficacia nello stato italiano della sentenza ecclesiastica deve operare un’indagine che comprende i seguenti aspetti:

l’esistenza e l’autenticità della decisione ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio e del successivo decreto rilasciato dalla Segnatura Apostolica;

la celebrazione di un matrimonio concordatario;

la competenza del giudice ecclesiastico a conoscere della causa;

il diritto di agire e resistere in giudizio garantito alle parti in modo non difforme dai princìpi dell’ordinamento italiano;

la presenza delle altre condizioni richieste dalla legislazione italiana per la dichiarazione di efficacia delle sentenze straniere e cioè: a) l’assenza di una sentenza passata in giudicato emessa nell’ordinamento giudiziario italiano che sia contrastante con la sentenza ecclesiastica; b) che non sia pendente innanzi ad un giudice italiano un giudizio fra le stesse parti avente il medesimo oggetto (cioè la nullità dello stesso matrimonio, anche se per motivi diversi da quelli addotti in ambito ecclesiastico), instaurato prima che la sentenza canonica sia divenuta esecutiva; c) che la sentenza ecclesiastica non contenga disposizioni contrarie all’ordine pubblico italiano.

E’ considerata contraria all’ordine pubblico italiano la riserva mentale ovvero il fatto di essersi sposati escludendo uno degli elementi o proprietà essenziali del matrimonio (esclusione della indissolubilità del vincolo, della fedeltà, della prole e/o del matrimonio stesso) senza comunicarlo all’altro o senza che l’altro sia stato in grado di saperlo usando l’ordinaria diligenza: mentre in diritto canonico un matrimonio può essere dichiarato nullo anche se l’esclusione è rimasta nella sfera intima del contraente, nel diritto italiano occorre che l’esclusione venga manifestata o conosciuta dall’altro coniuge in virtù del principio dell’affidamento incolpevole. La Corte di Appello è chiamata ad accertare la conoscenza o l’oggettiva conoscibilità dell’esclusione da parte dell’altro coniuge con piena autonomia rispetto alle valutazioni operate dal giudice ecclesiastico, ma deve effettuare detta indagine con esclusivo riferimento alla pronuncia da delibare e agli atti del processo canonico eventualmente acquisiti senza alcuna integrazione di attività istruttoria.

Per essere più chiari è sempre utile ricorrere ad esempi pratici per cui si riporta qui una decisione della Cassazione civile del 2 febbraio 2015 n. 1790 relativa alla delibazione di una sentenza ecclesiastica che ha dichiarato la nullità del matrimonio per esclusione della prole da parte dell’uomo. La moglie ha presentato ricorso in cassazione contro la decisione della Corte di Appello territoriale che aveva riconosciuto l’efficacia nello stato italiano della sentenza di nullità del suo matrimonio affermando di non essere stata edotta della riserva mentale del marito e di non essere stata nemmeno messa nelle condizioni di conoscerla usando l’ordinaria diligenza: la Corte di Cassazione ha dato ragione alla donna cassando la sentenza della Corte di Appello secondo cui era da escludere l’affidamento incolpevole della ricorrente in quanto, anche se le risultanze istruttorie del giudizio ecclesiastico portavano ad escludere una sua conoscenza diretta della circostanza, la stessa avrebbe dovuto conoscerne usando l’ordinaria diligenza in quanto gli amici lo sapevano e si trattava di una questione di estrema rilevanza nella futura vita matrimoniale. La Cassazione ha invece osservato che : “la contrarietà alla filiazione costituisce un elemento della sfera intima e strettamente personale del soggetto privo di indici esteriori di riconoscibilità. Ne consegue che la conoscenza di tale opzione personale può desumersi dalle dichiarazioni dirette della parte o di un terzo che dalla parte l’abbia appreso e lo riferisca al destinatario. In quest’ultima ipotesi, come esattamente rilevato dalla stessa Corte territoriale, è necessaria una specificazione puntuale del contesto spazio-temporale nel quale la circostanza è riferita. Il numero e la qualità delle persone a conoscenza della circostanza, peraltro appartenenti alla sfera relazionale del soggetto che ha assunto il vincolo coniugale con tale riserva mentale costituiscono elementi del tutto inidonei a fondare la presunzione di conoscibilità in capo all’altro coniuge. E’ necessario, pertanto, che venga indicato come dal complessivo materiale istruttorio possa affermarsi che sia pervenuta nella sfera di conoscenza dell’altro coniuge l’esclusione del bonum prolis”. (Cass. Civile, sez. I, sent. dd. 2.02.2015 n. 1790).

Non è delibabile per contrarietà all’ordine pubblico italiano nemmeno una sentenza dichiarativa della nullità di un matrimonio durato almeno tre anni: questo principio è stato creato dalla Giurisprudenza della Suprema Corte partendo dal presupposto che la convivenza come coniugi fa scaturire una serie di diritti, doveri e responsabilità, tutelati nella Costituzione, nelle Carte Europee e nella legislazione italiana (Cass. Civ. S.U. nn. 16379 e 16380 del 17.07.2014) e quando ha una durata di almeno tre anni diventa una situazione giuridica caratterizzata da una complessità fattuale strettamente connessa all’esercizio di diritti, adempimento di doveri e assunzione di responsabilità di natura personalissima che in quanto tale costituisce un ostacolo alla delibazione (Cf. Cass. Civ., sez. I, sentenza dd. 22.09.2015 n. 18695).

Tale limite opera indipendentemente dal motivo di nullità per cui è stato dichiarato nullo il matrimonio in sede canonica e deve essere oggetto di un’eccezione in senso stretto ovvero occorre che la delibazione sia chiesta da un coniuge nei confronti dell’altro con atto di citazione e che l’altro nella comparsa di costituzione, quindi nel primo atto difensivo, eccepisca la sussistenza di una convivenza matrimoniale di almeno tre anni. La convivenza triennale come coniugi deve avere le caratteristiche della “riconoscibilità dall’esterno – attraverso fatti e comportamenti che vi corrispondono in modo non equivoco – nonché della stabilità” (Cass. civ. n. 18695/2015). Il coniuge che solleva detta eccezione ha l’onere, oltre che di sollevare l’eccezione nel primo atto difensivo, quella “2) di allegare i fatti specifici e gli specifici comportamenti dei coniugi, successivi alla celebrazione del matrimonio, sui quali l’eccezione medesima si fonda, anche mediante la puntuale indicazione di atti del processo canonico e di pertinenti elementi che già emergano dalla sentenza delibanda; 3) di dedurre i mezzi di prova, anche presuntiva, idonei a dimostrare la sussistenza di detta convivenza coniugale, restando ovviamente salvi i diritti di prova della controparte ed i poteri di controllo del giudice della delibazione quanto alla rilevanza ed alla ammissibilità dei mezzi di prova” (Cass. Civ. n. 18695/2015). Un richiamo generico o un mero riferimento alla durata della convivenza coniugale, nell’ambito di una argomentazione difensiva svolta ad altri fini, non è pertanto sufficiente a manifestare la volontà di sollevare la specifica eccezione in esame. Qualora il coniuge nei cui confronti viene chiesta la delibazione non si costituisse nel procedimento e venisse dichiarato contumace l’eccezione relativa alla durata della convivenza coniugale non potrebbe essere sollevata d’ufficio ed il limite di ordine pubblico non potrebbe operare.